21 luglio 2008

De Entheogenica

S'intende tutt'oggi per droga, psicoattiva o non, quello che millenni fa pensavano Ippocrate e Galeno, padri della medicina scientifica: una sostanza che invece di «essere vinta» dal corpo (e assimilata come semplice alimento) è capace di «vincerlo», provocando, seppur in dosi insignificanti paragonate a quelle di altri alimenti, grandi cambiamenti organici, psichici, o di entrambi i tipi.
Le prime droghe comparvero in piante o parte di esse, come risultato di una coevoluzione tra regno botanico e animale. Alcuni terreni con erba da foraggio, per esempio, cominciarono ad assorbire silicio, provocando negli erbivori di quelle zone o l'aumento dell'avorio nei loro molari oppure la perdita dei denti dopo pochi anni di pascolo. Analogamente alcune piante svilupparono difese chimiche per contrastare la voracità animale, «inventando» droghe mortali per specie senza papille gustative o senza olfatto fine. E' probabile che alcuni esseri umani abbiano subito dei mutamenti una volta assaggiate queste erbe psicoattive; in quest'ottica sono interpretabili vari miti, comuni a tutti i continenti, in cui viene narrato il nesso tra cibarsi di questo cibo (quasi sempre definito come carne o cibo degli dei[1]) e il paradiso come reminiscenza di antiche trance.
Tuttavia durante milioni di anni per gran parte i vegetali e i frutti erano velenosi e piccoli, come la pannocchia del mais arcaico (sopravvissuta in America Centrale) o la vite silvestre. Solo con la rivoluzione del Neolitico comparve tra i cereali un grano non tossico e succulento nonchè molte leguminose commestibili ed un'ampia gamma di frutti con abbondante polpa. (..)
Le culture dei cacciatori-agricoltori, senza dubbio le più antiche del pianeta, hanno in comune una pluralità aperta o infinita di dei. Oggi sappiamo che gran parte di quelle società gli invididui hanno imparato e riaffermato la loro identità culturale facendo esperienze con qualche droga psicoattiva. Per questo motivo, queste tradizioni rappresentano un capitolo tanto fondamentale quanto dimenticato fino a poco tempo fa di quella che religioni posteriori, tipiche delle culture sedentarie, chiameranno verità rivelata. Le prime ostie o forme sacre sono state sostanze psicoattive, come il peyote o certi funghi.
D'altro canto solo il tempo segnerà il confine tra la festa, la medicina, la magia e la religione. Malattie, castighi e impurità sono in principio la stessa cosa, un pericolo che si cerca di scongiurare con dei sacrifici. Alcuni sacrificavano vittime (animali, umane) a qualche divinità per ottenerne i favori, altri mangiano in comune qualche cosa che è considerata divina. Questa seconda forma di sacrificio, l'agape o banchetto sacramentale, si relaziona quasi infallibilmente con le droghe. Così succede oggi con il peyote in Messico, con l'ayahuasca in Amazzonia, con l'iboga in Africa occidentale o con la kawa in Oceania; numerosi indizi suggeriscono che altre piante sono state usate in modo più o meno analogo in passato. Fin dalla notte dei tempi, ingerire qualcosa che veniva considerato la «carne» (o il «sangue») di certi dei poteva essere proprio una religione naturale o primitiva, frequente anche in cerimonie di iniziazione alla maturità e in altri riti di passaggio. Ma anche se c'è una grande differenza tra il sacrificio cruento e quello incruento, tra il dono di una vittima e il banchetto sacramentale, entrambi i tipi possono fondersi in riti come la messa, dove il ricordo del capro espiatorio Cristo («agnello che lava i peccati del mondo») crea un pane benedetto e un vino benedetto, corpo e sangue del sacrificato.
Si noti come la parola greca per indicare droga sia pharmakon, e che pharmakon - cambiando solo l'accento e la lettera finale - significhi proprio capro espiatorio. Lungi dall'essere una mera coincidenza, questo mostra fino a che punto la medicina, la religione e la magia siano agli albori inseparabili.
La più antica fusione di queste tre dimensioni è lo sciamanesimo, un'istituzione diffusa in tutto il pianeta, il cui senso è quello di amministrare le tecniche dell'estasi, intendendo per estasi uno stato di trance che cancella le barriere tra veglia e sonno, tra cielo e terra. Assumendo qualche droga o fornendola a qualcun'altro, o a tutta la tribù, lo sciamano tende un ponte tra l'ordinario e lo straordinario (stesso ruolo ricoperto per altro dal pontefice, pontifex), servendo per le cerimonie religiose quanto per la terapia.
E' curioso che, nella sua Metafisica (A 984b 18), Aristotele attribuisca ad Ermotimo di Clazomene, un individuo dall'evidente profilo sciamanico, l'invenzione della parola Nous, che traduciamo come «intelligenza». Le leggende su Ermotimo raccontano che spesso abbandonava il suo corpo, alcune volte per incarnarsi in diversi esseri viventi, altre per viaggiare attraverso dimensioni sotterranee o celesti.
Sorprendentemente, il livello di conoscenza sulla botanica psicoattiva dipende dal fatto che in un territorio sopravvivano forme di religione naturale, amministrate da sciamani. Questo è stato notat da un confronto tra il continente americano e quello eurasiatico: anche se il primo è molto minore in grandezza rispetto al secondo, con una minore varietà botanica, il Nuovo Mondo conosce dieci piante psicoattive per ciascuna di quelle conosciute nel Vecchio Mondo. Il dato è ancora più rilevante se si considera che in Europa ed in Asia si trovano pianti uguali o simili a quelle americane. Ma l'America, a differenza dell'Africa e dell'Eurasia, fino a pochi secoli fa era estranea ai grandi monoteismi.
L'ebbrezza era un'esperienza, a volte religiosa a volte edonista, che l'uomo del passato praticava con diverse sostanze psicoattive. l'Ahura-Mazda, libro sacro dello zoroastrismo dice «senza trance e senza canapa» in uno dei suoi versi (XIX, 20), e ci sono riferimenti a funghi psicoattivi in altri inni a divinità asiatiche e del Nord Europa. L'antica parola indoiranica per canapa (bhanga in iranico, bhang in sanscrito) si usa anche per la trance indotta da altre droghe. Con effetti completamente opposti a qualunque bevanda alcolica, gli arcaici inni del Rig Veda parlano dell'ebbrezza di come di ciò che «eleva la carrozza dei venti», e molto più tardi, nel I secolo, Filone d'Alessandria continua a relazionarla ad atti di giubilo sacramentale; nel suo trattato di agricoltura infatti afferma: "Dopo aver implorato il favore degli dei (..) raggianti ed allegri si abbandonavano alla rilassatezza e al godimento (..) Si dice che da lì viene la parola ubriacarsi, perchè era usanza già in ere precedenti concedersi all'ebbrezza dopo aver sacrificato" (De plantatione, XXXIX, 162-163).
Tuttavia, all'interno dell'ebbrezza sacramentale, è necessario distinguere tra possesso e viaggio. L'ebbrezza da possesso, provocata da droghe come l'alcool, il tabacco, la datura, la belladonna e altre analoghe, induce raptus di frenesia corporale dove scompare la coscienza fisica; accompagnati dalla musica e dalle danze violente quei raptus sono tanto piùù riparatori quanto meno somigliano alla lucidità e al ricordo. Al contrario, l'ebbrezza da viaggio è provocata da droghe che rafforzano in modo spettacolare i sensi senza cancellare la memoria; il loro uso può essere accompagnato da musica e danza, ma suscita prima di tutto un'escursione psichica cosciente, introspettiva prima e dopo.
L'ebbrezza da viaggio che, per l'appunto, è quella sciamanica, ha avuto forse l'epicentro in Asia centrale, da dove si è estesa verso l'America, il Pacifico e l'Europa. Quella da possesso regna in Africa e da quell'area forse è passata al Mediterraneo e al grande arcipelago indonesiano, dove l'amok costituisce una delle sue manifestazioni più chiare; in tempi storici invase l'America con la tratta degli schiavi e tutt'oggi, con nomi come vudù, candomblè o mandinga, gode di svariati seguaci.

Note
[1]soma, amrita, ambrosia, haoma, teonanacatl (..)



tratto da: Antonio Escohotado - Piccola storia delle droghe (Donzelli)

4 luglio 2008

Una certà libertà

"Oggigiorno, quando da ogni parte di discute appassionatamente del problema della libertà, è bene chiederci che cosa possa significare questa parola. Il XIX secolo ha tenuto in gran conto la libertà dell'individuo e ha accordato al pensiero e agli istinti individuali innumerevoli diritti. In pratica, la definizione sommaria della libertà, nel senso attribuitole dal 1800, sarebbe «la partecipazione dell'individuo al maggior numero di diritti acquisiti». Si era liberi di credere o no in Dio, perchè si era conquistato il diritto di libertà religiosa. Si era liberi di divorziare, perchè si erano conquistati certi diritti relativi al legame coniugale. Si era liberi di pensare qualunque cosa, perchè si era conquistato il diritto alla libertà di coscienza. E così di seguito. E' facile comprendere che questa libertà contrattuale riguarda pochissimo il problema della libertà in sè. Si tratta di un certo numero di diritti acquisiti poco per volta, diritti assai piacevoli, ma che non implicano affatto la libertà dell'individuo. Essere liberi significa, anzitutto, essere responsabili verso se stessi. Esseri liberi della propria vita - come dire essere impegnati da ogni atto che si compie; si deve renderne conto. Partecipare ai diritti, al contrario, non comporta alcun impegno, è una «libertà» esteriore, automatica; un permesso di libera circolazione nella vita civile e privata. Con un permesso del genere, che non impegna moralmente nè socialmente, non si rischia niente. Riflettiamo un po' su quel che significa, nella vera accezione del termine, un uomo libero, completamente libero. E' un uomo che risponde con la propria vita di ogni suo atto. Non si può essere liberi se non si è responsabili. La vera libertà non implica «diritti», perchè questi, essendoci dati dagli altri, non ci impegnano. Si è liberi quando si risponde di tutti i propri atti. Responsabilità grave, perchè si tratta della propria vita, che si può perdere (fallendo) o rendere fertile (creando). Al di fuori di questi due poli - il fallimento e la creazione - non vedo quale senso potrebbe avere la libertà. Essere liberi - lo ripeto - significa essere responsabili della propria vita. Si può lasciarsela sfuggire o crearla; diventare un automa e un fallito, oppure un uomo vivo e completo.
Le epoche che hanno ignorato questo senso della libertà hanno prodotto il maggior numero di fallimenti. Così ha fatto il XIX secolo promuovendo una libertà esteriore, irresponsabile, contrattuale. A tale riguardo, per paradossale che possa sembrare, il Medioevo ha conosciuto una maggiore libertà. Le persone che sono vissute allora erano più responsabili, più solenni; ogni atto della loro vita li impegnava; potevano perdersi o salvarsi. La paura della responsabilità costringe l'uomo moderno a rinunciare alla libertà per dei diritti. Fra tutte le «libertà» conquistate dopo la rivoluzione francese la sola cosa valida è il diritto di essere liberi. Del quale, tuttavia, non approfitta quasi nessuno. Perchè compiere atti che non possono essere sanzionati non vuol dire essere liberi."


Testo tratto da Mircea Eliade - Fragmentarium